La “scoperta” del turismo

Primi i francesi di Connaissance du monde

 

 

Il turismo arriva nelle Eolie negli anni 50 ed apre subito una prospettiva nuova di sviluppo per rilanciare una economia in crisi. Nel 1949 il vulcanologo Hourun Tazieff aveva proiettato in Francia ed in Belgio alcune riprese filmate delle isole di Stromboli e Vulcano. Fu l’occasione perché l’Associazione parigina “Connaissance du monde”, che andava alla ricerca di località nuove da proporre ai propri soci, prendesse l’iniziativa di organizzare dei tours per i vulcani italiani. Nel programma “croisière des volcans” si era scelta come località di soggiorno Vulcano da dove sarebbero partite escursioni per Stromboli, Lipari e le altre isole. Prima di Vulcano il programma prevedeva la visita al Vesuvio e dopo, quella conclusiva, all’Etna.

Ma dove alloggiare i turisti? Allora l’intera attrezzatura ricettiva dell’arcipelago era formata da tre locande a Lipari, una a Stromboli ed una a Salina. In tutto 35 posti letto. A Vulcano non c’era niente. Era allora una landa attraente ma senza quasi segno di vita.

Si fece un accordo con un abitante dell’isola che aveva del terreno nella zona di Ponente e si costruì un villaggio modesto, con un minimo di attrezzature ma che fin dal primo anno fece registrare un tale successo da stimolarne l’ampliamento ed il miglioramento.

Stesso problema a Stromboli. Ma qui almeno un punto di riferimento c’era: il parroco di San Vincenzo che conosceva  la disponibilità di molte case di chi negli anni e mesi precedenti era partito per l’Australia o per l’America. Non fu facile convincere la gente che a Stromboli c’era ancora possibilità di vita. Dopo l’effervescenza vulcanica degli anni trenta e quaranta la popolazione non pensava che ad emigrare. Molti erano andati già via, gli altri aspettavano la”chiamata” da amici o parenti. Come non fu facile convincere gli abitanti di Panarea, Filicudi, Alicudi e della stessa Salina.

Ogni isola però trovò il suo pioniere che credette nel turismo e si mise ad operare perché il sogno divenisse realtà.

 

 

Su Vulcano e Stromboli l’attenzione maggiore

 

Sicuramente un contributo importante lo dettero anche i film di Rossellini e della Magnani, Stromboli e Vulcano, è la contesa e la polemica professionale- amorosa che si scatenò fra i protagonisti delle due produzioni. Il messaggio che fu trasmesso al mondo era quello di una realtà ancora selvaggia ed incontaminata ricca di colori e di fascino, ma anche di mistero. Un soggiorno al tempo stesso interessante e riposante.

Nel corso degli anni cinquanta e parte degli anni sessanta furono soprattutto Vulcano e Stromboli ad attrarre l’attenzione. Di Vulcano colpivano le fumarole, il mare che bolliva, i faraglioni che sembravano ergersi da profondità notevoli, i cristalli di zolfo. Di Stromboli l’attività vulcanica con gli scoppi pirotecnici che illuminavano la notte, il sordo brontolio del cratere, la sciara del fuoco che si poteva ammirare, durante le eruzioni, dalla barca.

Erano motivi che interessavano ed affascinavano scienziati ed uomini di cultura ma anche il pubblico meno colto alla ricerca di emozioni forti o solo amante della natura. E il tutto immerso in una cornice storica, che una visita irrinunciabile al Museo di Lipari, permetteva di cadenzare.

Dal 1950 al 1958, osserva Carmelo Cavallaro, la corrente turistica – quasi esclusivamente per merito di Connaissance du Monde – era prevalentemente formata da stranieri provenienti dalla Francia, dall’Olanda e dal Belgio. A quel tempo una organizzazione universitaria messinese, la Corda frates, prese l’iniziativa di istituire due villaggi, prima a Vulcano e poi a Stromboli, facendovi affluire numerosi studenti di alcune Università centro- settentrionali e straniere. A Stromboli il Club Alpino istituì un rifugio per i propri soci e l’Istituto di Vulcanologia dell’Università di Catania vi attrezzò una sezione.

Grazie all’attività di queste organizzazioni arrivarono molti giovani. E fu allora che cominciò un’azione di propaganda e di incentivazione di organi provinciali e regionali perché si aprissero esercizi alberghieri.

E così dai tre esercizi esistenti in tutto l’arcipelago nel 1949, già nel 1954 se ne contavano 17, ancora di dimensioni modeste, per un complesso di 81 camere e di 150 posti. Le presenze furono di 11.424 turisti negli alberghi e 5 mila in alloggi privati. Privilegiate in questo flusso furono le isole di Vulcano e di Stromboli segno che questo tipo di turismo era non solo attratto dalla natura ma anche dai fenomeni, in qualche modo eccezionali, che questa proponeva. Lipari invece – essendo più attrezzata – ospitò le comitive in transito. Le altre isole parevano poco coinvolte da questo nuovo fenomeno, salvo Panarea la quale attirava, in particolar modo, gruppetti di lombardi.

La seconda metà degli anni 50 fa registrare, nelle isole, un pur modesto segnale di risveglio sociale trainato dai primi proventi dell’attività turistica, da modelli di vita introdotti dai nuovi frequentatori, dalle erogazioni finanziarie degli emigrati in Australia.

 

Turismo residenziale e cementificazione

 

 

Ma se fino a questo momento il flusso che riguarda le Eolie si delinea come un turismo naturalistico ed in certa misura anche culturale, a partire dal 1962 abbiamo una inversione di tendenza. E’ in quell’anno che prende l’avvio la costruzione di nuovi alberghi ma soprattutto comincia, da parte di forestieri, la domanda di terreni e di ruderi per realizzarvi costruzioni. Le richieste maggiori interessano Vulcano e a Vulcanello e sorgono appunto villette e costruzioni in spregio spesso del paesaggio e dell’ambiente. Si tratta di un processo lento ma inesorabile. Nel 1964 nelle isole si possono contare ben 42 esercizi alberghieri con 461 camere e 885 letti, oltre all’offerta in case private che certo supera il migliaio di posti letto. Si registrano, quell’anno, in alberghi 31.897 presenze di cui 12.216 stranieri, mentre si stimano fra le 7 e le 8 mila le presenze in esercizi extralberghieri.

L’epoca del boom economico e delle prime fortune ostentate da una borghesia rampante è anche quella dell’evidenziarsi dello stress delle metropoli e dei ritmi dell’economia e degli affari per cui diventa di moda la ricerca di un mondo lontano dai soliti circuiti turistici e quindi anche “rifugiarsi” alle Eolie.  Così le isole richiamano sempre più un turismo italiano di tipo residenziale che crea il fenomeno delle residenze secondarie che si diffonde , pur in misura diversa, in tutte le isole.

E’ in questo momento che cessa anche l’attività, per mancanza di sostegno e di agevolazioni, delle organizzazioni che avevano promosso le isole e così il flusso degli stranieri va lentamente diminuendo anche se i vuoti vengono ricoperti, come abbiamo detto, da turisti italiani che risultano invece in crescita.

“Non esistendo alcuno strumento urbanistico – osserva Carmelo Cavallaro – durante il ‘miracolo economico nazionale’, le costruzioni crescono disordinatamente, le localizzazioni degli alberghi avvengono senza alcun criterio di analisi territoriale, e l’urbanizzazione dilagante a Vulcano tocca i limiti non soltanto di saturazione ma anche di pericolo. Ci riferiamo alle villette costruite alle pendici di Forgia Vecchia della Fossa di Vulcano. E così si va avanti nel tempo con una serie di problemi assillanti: dalla mancanza di acqua, alla carenza di trasporti, alla insufficienza ed inefficienza di centri di servizio. Aumentano l’urbanizzazione e il flusso turistico, aumenta vertiginosamente il movimento durante le festività, ma le strutture del territorio restano quelle di una volta”.

Nel 1974, lungo questa linea di tendenza, gli esercizi alberghieri erano divenuti 55, le camere 1.047, i posti letto 1.992. Diversi gli impianti sempre destinati alla recezione turistica: vi erano  4 campeggi, l’Ostello della gioventù e 168 affittacamere e appartamenti ammobiliati per complessivi 838 posti letto. In particolare gli alberghi erano così distribuiti: 14 a Lipari, 12 a Vulcano, 11 a Stromboli, 9 a Panarea, 6 a Salina, 2 a Filicudi, 1 ad Alicudi.

Il maggior incremento lo hanno avuto Lipari e Vulcano mentre Alicudi e Filicudi, sono state penalizzate dalle comunicazioni. Stromboli, come Panarea, invece sono state caratterizzate da una rilevante ristrutturazione delle abitazioni esistenti, in particolare quelle abbandonate dalla grande emigrazione, creando un mercato della seconda casa. A Stromboli già nel 1950 tre quarti delle abitazioni risultavano deserte;  a Panarea era l’isola più frequentata da milanesi, torinesi, e veneti e si operava in tutte le case e i ruderi sparsi con adattamenti discutibili.

Vulcano sotto il tiro del cemento

 

 

L’isola più colpita dal fenomeno della cementificazione è stata però Vulcano dove il paesaggio, ed in particolar modo il tratto di territorio che va dal porto di Levante a Ponente, ha subito una profonda modificazione. Al vigneto e alla vegetazione tipica si sono sostituite costruzioni che non hanno tenuto conto dell’architettura tradizionale. E ancora peggiore si presentava la situazione di Vulcanello dove non era mai esistito alcun insediamento umano. Ciò che a Vulcano favoriva la speculazione era la concentrazione della proprietà.

L’isola di Salina è rimasta invece un po’ ai margini di questo processo passando dai 41 posti letto del 1956 ai 132 del 1974 con una conservazione quasi totale dei beni naturali e paesistici. Non è mancato però anche a Salina un certo flusso turistico che ha trovato accoglienza presso affittacamere ed appartamenti ammobiliati oltre che un Ostello della Gioventù, il tutto per complessivi 1500 posti letto circa.

Solo le isole di Alicudi e Filicudi, almeno in questa fase, rimanevano indenni da questa “mercificazione” del suolo.

Nel 1974 nelle isole si sono registrate circa 126 mila presenze in esercizi alberghieri e 181 mila circa in esercizi extralberghieri oltre alle miglia di presenze che sfuggono alla rilevazione statistica.

La presenza degli stranieri negli esercizi alberghieri nel 1974 sono state 24.253 e rappresentano il 20,4% delle presenze globali. Questi provengono dalla Germania ( 37,77%), dalla Svizzera (18,15%), dalla Francia (15,68 %), dagli Stati Uniti (4,48%), dall’Austria ( 3,21%) e la rimanenza (20,71%) da altri stati.

Ma, è bene sottolinearlo, dopo il 1970 è l’espansione delle residenze secondarie l’elemento caratterizzante dello sviluppo turistico del’arcipelago: nuove villette, case, appartamenti, ristrutturazioni e ampliamenti di case esistenti, ruderi che diventano villette.

 

Il turismo ed oltre il turismo negli anni 70

 

La vocazione turistica delle singole isole

 

Alla fine di questa convulsa fase di sviluppo, intorno alla metà degli anni 80, come si qualificano le diverse isole nei riguardi del turismo? Cominciamo da Lipari che richiama circa il 50% dei flussi che si dirigono alle Eolie. Lipari attira nel suo territorio due tipi di turismo: sia quello di tipo residenziale amante della natura e della cultura ma che non riesce a rinunciare alle opportunità offerte dalla civiltà urbana anche se qui percepita in misura ridotta; sia quello di transito dove l’isola svolge la funzione di centro logistico e di smistamento per escursioni nelle altre isole dell’arcipelago. Il risultato è stato che Lipari ha dedicato molto del suo territorio sia agli alloggi che ai servizi privati e pubblici e questo ha inciso profondamente sul paesaggio. All’inizio degli anni 80 il turismo costituiva la componente più importante dell’organizzazione dell’isola ma non la sola. Infatti a Lipari si avvertiva l’importanza delle cave di pomice e della pesca.

Vulcano. Il villaggio francese all’inizio degli anni 50

 

Cosa che non esisteva a Vulcano dove tutta l’organizzazione economica ruotava introno al turismo. Un turismo soprattutto residenziale, da seconda casa ed in quegli anni furono molti i borghesi siciliani che comperarono un alloggio o fra il verde di Vulcanello, o lungo la spiaggia di Ponente, o sull’altopiano di Lentìa. A questo turismo residenziale si aggiungeva una sorta di turismo pendolare nelle domeniche e giorni festivi di gente che dalla costa tirrenica veniva a trascorrere una giornata nell’isola spalmandosi il fango sulla pelle e camminando avanti e dietro per le spiagge ostentandolo come un cimelio. Vulcano, l’isola selvaggia della Magnani, a distanza di pochi decenni si qualifica come l’isola dell’improvvisazione e della speculazione per eccellenza che avrà anche portato benessere alla popolazione locale ma con uno spreco di risorse naturali ed ambientali veramente impressionante. Così all’inizio degli anni 80 a Vulcano Porto si concentrano caratteri che non sono certo quelli di un turismo naturalistico e di qualità: abbondanza di cemento, rumori e traffico, scempi paesaggistici. A Vulcano, – scrive Raffa – per costruire ed aprire piste, sono state sventrate formazioni di zolfo e di allume; sono stati distrutti o asportati prodotti vulcanici caratteristici, come le ‘ bombe a crosta di pane’, sono state spianate e sbriciolate rocce di forme particolari o è stato sbarrato l’accesso che vi conduce, come per la ‘Valle dei Mostri’ nella penisoletta di Vulcanello; si è costruito fin sul demanio marittimo”.

Anna Magnani in una scena del film Vulcano

Eppure nonostante questo, in quegli anni, proprio Vulcano poteva vantare di raccogliere una fetta cospicua, il 25%, dei flussi delle Eolie.

Stromboli invece veniva al terzo posto con il 13 %. E’ un centro turistico residenziale ma qui il paesaggio non ha subito, in quegli anni, violente trasformazioni. Naturalmente non mancano anche qui improvvisazione, abusivismo, speculazioni ma proprio il grande patrimonio edilizio abbandonato – come abbiamo sottolineato – dagli isolani in fuga sul finire degli anni ’40 ha frenato il proliferare di nuove costruzioni. Anche a Stromboli ormai il turismo è tutto anche se c’è da dire che non sono stati opportunamente sfruttati, con centri di interesse organizzati, né la storia del vulcano con i suoi fenomeni, né i luoghi immortalati da Rossellini e dalla Bergaman. L’attenzione al turismo più che volta a promuovere servizi culturali era diretta soprattutto alla ricettività ed alla ristorazione.

A Panarea, invece, gli abitanti sono rimasti per lungo tempo spettatori dello sviluppo turistico dell’isola affidato appunto all’intraprendenza di persone venute da fuori e soprattutto, come abbiamo detto, dal nord Italia. A partire dagli anni ’60 sono stati infatti i nuovi proprietari delle seconde case  a dettare le linee di gestione del territorio, tese alla “conservazione” dell’integrità della natura, requisito indispensabile per il loro soggiorno, arrivando persino ad osteggiare l’introduzione di servizi importanti – soprattutto per chi nell’isola doveva viversi tutto l’anno – e cioè la luce elettrica ed il telefono.

A Salina, il turismo, benché si sia manifestato solo a partire dagli anni 70, sul finire degli anni 70 e l’inizio degli anni 80 ha mostrato di poter diventare un polo di attrazione determinante accentuando la sua qualità di “isola verde” una immagine che ormai né Vulcano, né Lipari potevano più offrire. E certamente l’esempio proprio di queste isole ha prodotto nella consapevolezza dei salinari un netto cambio di prospettiva nei confronti di certe tendenze, che come abbiamo visto, pure a metà degli anni 70 si erano cominciate e manifestare nell’isola.

La scelta di un turismo che tenesse conto dell’ambiente naturale con una tendenza all’edilizia turistica “sparsa” e non “concentrata” in voluminosi impianti, si è evidenziata in particolare nell’iniziativa dell’agriturismo che in quegli anni si propose a Malfa con buoni risultati. A Salina si può dire che il turismo ha avuto un effetto meno stravolgente sull’agricoltura. Non è mancato anche qui un certo esodo agricolo, ma l’intreccio fra la crescente domanda turistica con il rilancio della malvasia ha sollecitato un miglioramento ed incremento della cultura della vite.

Ma se la vocazione turistica a Salina seppure tardiva si manifesta molto veloce dimostrando non solo una volontà di recupero ma anche una capacità di saper fare tesoro degli errori degli altri, in quegli anni Filicudi ed ancora più Alicudi rimangono ai margini del fatto turistico assorbendo rispettivamente l’1,3% e lo 0,2% del flusso nell’arcipelago. E questo malgrado il tentativo di farne luogo di soggiorno obbligato per i presunti mafiosi fosse fallito e l’evento della rivolta avesse destato una certa curiosità ed attenzione.

Avrà influito certamente la loro perifericità che ha scoraggiato l’intervento di investitori forestieri e così si è dovuto aspettare che maturassero nei locali la cultura e le risorse per fare degli investimento nelle attività ricettive e nella ristorazione.

Anche qui, come per Panarea, hanno svolto un certo ruolo turisti che hanno cercato di imporre le loro logiche elitarie calando le loro esigenze su quelle della popolazione locale ed in qualche modo condizionandola.

 

Le altre risorse: l’inustria della pomice

 

Di tutti i settori economici del territorio comunale di Lipari, sul finire degli anni 70,  quello che è in forte crescita insieme al turismo ed all’industria della pomice,  è il settore dell’edilizia coerentemente con una prospettiva di turismo basata sulle costruzioni e le speculazioni.  Le imprese locali del settore erano a metà degli anni settanta 23 con 150 dipendenti contro le 10 imprese edilizie non locali con 120 dipendenti;  se ci riferiamo a Vulcano la maggior parte degli imprenditori che operavano nell’isola importavano mano d’opera dalla Sicilia,[2] Per l’edilizia a cominciare da quella abusiva il turismo ha fatto da volano, come anche per il commercio ed i servizi. Nessuna influenza invece il turismo ha avuto sull’industria della pomice, a meno di fare riferimento al prodotto adoperato nell’edilizia locale soprattutto con la fabbricazione di blocchi per le costruzioni, che comunque rappresentava una percentuale minima rispetto alle centinaia di migliaia di tonnellate esportate.

A metà degli anni 70 alla lavorazione della pomice si dedicavano la Pumex spa di Canneto, la Italpomice di Acquacalda e la Cooperativa San Cristoforo di Canneto. Le prime due lavoravano per il 75% circa per l’esportazione, mentre la cooperativa si occupava solo di produzione. La Pumex era sorta nel 1958 dalla graduale fusione di diversi gruppi imprenditoriali che nel passato avevano concessioni per lo sfruttamento del giacimento. La Italpomice, che sfruttava le cave di Acquacalda, era stata costituita nel 1956 dal tedesco H. Leonholdt, dopo che la famiglia Saltalamacchia cedette cave  e impianti di lavorazione.

In alto la Bergman in una delle scene drammatiche e conclusive del film “Sreomboli, terra di Dio”. Qui sopra la locandina del film.

 

Dopo la crisi della prima guerra mondiale il commercio ebbe una ripresa nel 1922 con 27.221 tonnellate di materiale esportato e un andamento favorevole, per il crescente impiego nell’edilizia. Questo fino al 1940 quando la produzione fu di 41.801 tonnellate.

Nel secondo conflitto mondiale l’industria della pomice subì la stessa sorte delle altre industrie.

Agli inizi degli anni 50 l’esportazione si intensificò e nel 1953 si raggiunsero le 114.840 tonnellate pur essendo allora caratterizzata la produzione da modeste aziende individuali che operavano con mezzi tecnologici e impianti rudimentali. Cominciò allora un lento processo di aggregazione nella Pumex delle aziende Th. Ferlazzo, F. La Cava, Eolpomice e Angelo D’Ambra.

Nel 1969 si esportarono 496.999 t di pomice di varie qualità. Cioè la produzione in sedici anni si era pressoché quadruplicata sia per miglioramenti produttivi sia per la ricerca di nuove strade commerciali. Fra il 1969 ed il 1976 la produzione avrà degli alti e bassi oscillando fra le circa 600 mila tonnellate del 1972 e le poco più di 200 mila del 1975. In questi anni cambiano anche i mercati di esportazione e nel 1976 l’area del mercato comune europeo soppianta gli Usa come principali importatori della pomice di Lipari mentre al terzo posto si attestano sempre i paesi africani. Sulla riduzione delle importazioni dagli Usa ha influito la crisi internazionale di quel periodo ma anche la concorrenza della pomice greca che era favorita sia sul piano fiscale che su quello del costo della manodopera.

Nel 1977 lavoravano nell’industria della pomice 226 persone la grande maggioranza nella Pumex: 186 contro i 29 dell’Italpomice e gli 11 della Cooperativa S. Cristoforo. Altre 250 persone erano addetti ad attività complementari.

Ma c’era un problema che immediatamente non venne avvertito. Era cambiato il procedimento di estrazione per lo sfruttamento dei giacimenti.  In passato l’estrazione avveniva a cava, a taglia e in galleria. L’estrazione a cava consisteva nel praticare ampie buche nel terreno, entro un’area più convenientemente sfruttabile.  L′estrazione “a taglia” veniva praticata in superficie, a cielo aperto, per la produzione dei materiali pomicei più comuni e di minor valore commerciale quali, ad esempio, i “lapilli”, pomice ricca di impurità. I cosiddetti “tagliaroli”, coordinati dal capo-taglia, scalfivano la montagna sino a realizzare tre o quattro buche profonde un paio di metri , poste l′una accanto all′altra. Si formava così un grande “ritaglio” di roccia che, sfruttando la naturale pendenza del terreno, veniva fatto “precipitare” verso il basso. Il colpo d′asta decisivo veniva inflitto dal capo-taglia, il più esperto nel riconoscere i punti deboli della roccia e l′esatto momento del crollo definitivo. L’estrazione “in galleria” infine veniva praticata da cavaioli specializzati che, attraverso gallerie, si spingevano all’interno dei giacimenti.

Ora invece il sistema di scavo veniva effettuato attaccando il giacimento per piani orizzontali, dall’alto verso il basso, con ruspe, che spingono il materiale in tramogge ricavate nel corpo della montagna stessa e dal cui fondo, attraverso apposite bocchette di scarico, l’escavato precipitava su un nastro trasportatore che lo convogliava ai canali di produzione.

Certamente questo metodo di lavoro riduceva i rischi di infortuni rispetto a quando si lavorava con picconi e zappe di ferro operando in cunicoli o gallerie o provocando degli smottamenti, ma l’impatto ambientale era di molto più rilevante. I bulldozers operando dall’alto verso il basso affettavano la montagna come un cosciotto di prosciutto cambiandole completamente fisionomia e, a lungo andare, questa attività non poteva non entrare in conflitto con un territorio che voleva sviluppare la sua vocazione turistica, soprattutto se questo turismo doveva essere di tipo naturalistico e legato, per buona parte alla vicenda dei vulcani.

 

E il termalismo?

 

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